Plechelmo il rancoroso

La butto lì.

Secondo me ti chiami Eustorgio. O Gerlando, se non addirittura Plechelmo.

Ma sì, forse Plechelmo. Ti si addice.

Anche Abruncolo e Clodolfo non erano male, però d’istinto direi proprio Plechelmo: suona di un bene…

Pensa che geni i tuoi genitori: quando stavi ancora nel pancino della mamma, i nomi possibili per un maschietto erano Simone, Fabio, Alessandro e Plechelmo. Poi quest’ultimo ha prevalso, perché così si chiamava poronònno, e lui ci teneva tanto a lasciare a quel marmocchio piagnucolante e muccioloso questa infausta eredità. Del resto, caro mio, un giorno ti beccherai la casa, la terra e il libretto alle Poste, tutta roba per la quale nonnetto tuo s’è spaccato la schiena in campagna per anni. Ora, se permetti, in mezzo a tanta immeritata bambagia, ti becchi pure st’obbrobrio di nome. Mi pare giusto.

Già ti vedo alle elementari, con tutti i bambini che scoppiano a ridere quando la maestra ti chiama…

Alisetti, smettila.
Russo, hai fatto i compiti?
Rosati, non copiare.
Plechelmo, alla lavagna. 

Tutti venivano chiamati per cognome. Tu no. Quel cacofonico marchio sonoro te lo dovevi sentire ogni volta, seguito dalle risate degli altri bambini. Ma quel che ti logorava di più non era il fatto di avere un nome brutto, quanto l’invidia che provavi per quelli che ne avevano uno fichissimo.

Mirko era il tuo assillo peggiore. Che fortuna che aveva avuto a chiamarsi così. Perché Mirko è più ganzo di Marco. C’è quella i che affetta tutte le rotondità della a fino a farne una lama di coltello, sottile, affilata, tipo quei cosi a serramanico che i veri duri portano nelle tasche dei jeans. E poi la k: non è vero che il suono è come quello della c. Cioè, ci somiglia molto, ma quando la pronunci, in automatico si aggrottano le sopracciglia, i capelli si ungono di un lucido gel, le maniche corte della t-shirt si arrotolano fino a mostrare le spalle e ti viene un’espressione da duro che Chuck Norris in confronto è Cristina D’Avena.

Che poi, la mutazione ficògena da Marco a Mirko non era solo dovuta alla sostituzione di due lettere. anche Carlo provò a diventare più sghicio virando in Kirlo, ma quando aggrottava le sopracciglia gli occhi convergevano in uno strabismo da deficiente. Era proprio Mirko il compagno delle elementari baciato dalla fortuna (e dalle bambine più carine). Quanto lo invidiavi. Tanta era l’invidia che addirittura avresti preferito vedere lui con un brutto nome piuttosto che averne tu uno decente. Nei tuoi sogni più arcigni immaginavi di avere la bacchetta magica e trasformarlo in Frambaldo o in Abercio.

Ah, se almeno poronònno si fosse almeno chiamato Gerlando, magari potevi cavartela con un diminutivo, come Jerry. Non era male.

Ti immagino, poi, in piena adolescenza. Tutto sommato sei diventato anche un bel ragazzo, ma mentre ci stai provando con una bionda: «Ciao, mi chiamo Plechelmo», e fine della storia.

Insomma, era inevitabile che uno come te, così maledetto dalla nomenclatura di famiglia, crescesse con un astio verso i nomi. E non ci stupisce se proprio nel dare nomi ad altri hai trovato la tua più feroce vendetta. Perché un nome è un marchio, non si cambia.

Hai un bel lavoro. Lavori nel mondo del cinema. Come ci sei arrivato (nonostante quel nome da deficiente) non ci è dato saperlo. Però ora sei lì e il tuo ruolo è quello di dare titoli italiani a film stranieri. Perché hai voglia a dire “la distribuzione italiana”, “i distributori”, “le case di distribuzione” e tutte queste altre definizioni collettive. Queste sono entità multiple. Ma non è un’entità multipla a decidere un titolo. Nelle aziende ognuno ha un ruolo. Chi decide i titoli è un individuo, una persona, con un nome e un cognome. Questo è il tuo ruolo.

Quell’individuo sei tu, che (abbiamo deciso) ti chiami Plechelmo. Sei tu il Rollo Tomassi di RM-Cinecittà Confidential, l’incarnazione di tutto ciò che è sbagliato nella distribuzione cinematografica in Italia.

Domicile conjugal di Truffaut era un titolo troppo sobrio, misurato, in linea con lo stile dell’autore. Non ti piaceva? Certo che no. Tu, sobrio e misurato non potresti mai esserlo (con quel nome!). Così hai voluto trasformare Mirko in Abercio, ed ecco che il film di Truffaut diventa Non drammatizziamo… è solo una questione di corna. Contento ora?

Macché! O muori da eroe o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo.

Sotto con Le Deuxieme Souffle (il Secondo respiro), titolo bellissimo per un noir altrettanto bello, che diventa Tutte le ore feriscono… l’ultima uccide. E The Fortune Cookie di Billy Wilder sarebbe stato troppo sensato se tu l’avessi chiamato Il Biscotto della Fortuna, così hai dato il meglio di te con Non per soldi… ma per denaro.

Ma cosa dico! Il meglio l’hai sfoderato quando ti si presentò davanti il più Mirko di tutti titoli: Eternal Sunshine of the Spotless Mind, un elegantissimo verso di Pope, stupendo, messo in cima a un film di rara bellezza. Abèrcialo come si deve, Plechelmo, fallo diventare Se mi lasci ti cancello e sganasciati fiero in una risata malvagia.

Mi fermo a questi, ma la tua è una carriera lunga un secolo, e di soddisfazioni così te ne sei prese tante, troppe per ricordarle tutte.

Vedo, però, tra i titoli, un certo Out of the Past. Dovreste vederlo. Che film, ragazzi, bellissimo, con un Robert Mitchum pazzesco. Che titolo hai dato a questo film?

Le catene della colpa.

Strano… È davvero un titolo. Quando è giusto, è giusto. Complimenti Plechelmo!

Come dici? Quel giorno eri in malattia? Ti ha sostituito un collega?

Beh, fagli avere i miei complimenti. Come si chiama il tuo collega?

Mirko.

2 risposte a "Plechelmo il rancoroso"

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